CAPITOLO TERZO

L’oro

 

Alla sveglia il capitano mi ordinò di prepararmi per un giro nella valle: sarei stato fuori tutta la giornata col mio plotone. Spiegò la carta, non quell’incredibile carta, un’altra; e, indicandomi il punto che temevo, disse che avrei fatto bene ad arrivare sin là, del resto c’era una scorciatoia abbastanza agevole; e intanto studiassi se non era il caso di migliorarla, visto che gli uomini non avevano nulla da fare e nell’ozio avvilivano. Comunque, quella scorciatoia avremmo dovuto migliorarla in molti punti, troppo rocciosi.

Mentre il capitano parlava, io cercavo una scusa qualsiasi senza trovarne. Dovevo scontare in qualche modo la mia lunga assenza, e nessuna scusa poteva valere. Quando il capitano mi chiese se avevo capito, rimasi senza dir nulla, impacciato. “Tenga la carta” aggiunse.

Il plotone era già pronto. Tutti erano informati della località che dovevamo ispezionare. Questo mi dispiacque. Voleva significare che il capitano non faceva affidamento su di me e si rivolgeva anche al sergente per vedere eseguiti i suoi ordini. Mi dispiaceva, inoltre, perché l’idea che nel frattempo m’era balenata diventava inattuabile, anche il sergente aveva la sua brava carta ed era ormai impossibile deviare la comitiva verso un altro punto del fiume, e là fare il bagno e metterci a guardare il panorama; programma che i soldati avrebbero volentieri condiviso. Non c’era nulla da fare. Il sergente si sarebbe fatto uccidere piuttosto che rinunciare a quella che lui considerava un’azione di guerra: voleva essere promosso, ed era già fiero che il capitano l’avesse onorato della sua fiducia. Avrei potuto dirgli: “Io non vengo”; sarebbe stato felice di comandare il plotone, avrebbe fatto miracoli, ma appunto perciò la cosa si sarebbe risaputa. Dovevo andarci. E osservare la scorciatoia, decidere quali punti sarebbe stato opportuno migliorare.

“Troveremo acqua?”

“Sì” risposi sbadatamente, poi aggiunsi che non sapevo, ma che forse l’avremmo trovata. E sorrisi, pensando che avremmo trovato anche il sapone. O forse i corvi...

Bisognava tornarci. La cosa mi ripugnava profondamente, e non è dunque sempre vero che gli assassini sono attratti a tornare sul luogo del loro delitto. Forse questa mia ripugnanza voleva significare che era troppo parlare di delitto? Bene, ecco un lieve motivo di consolazione. Procedendo verso il fiume, mentre i soldati cantavano, sentii che ogni timore stava svanendo e che anzi vi si sostituiva una pacata curiosità, la curiosità che il lettore diligente pone nel visitare i luoghi descritti nel suo romanzo preferito. Potevo dire a me stesso di essere tranquillo, niente sarebbe accaduto. E poi che poteva accadermi? Non avevo certo paura di cattivi incontri con sbandati. Sapevo che di preferenza non agivano di giorno e semmai i loro colpi ambivano farli dove c’era qualcosa da portar via. Ma che avrebbero cavato da un plotone, se non lettere e pensieri sul ritorno? Quanto alla donna, essa giaceva ben composta, a meno che qualche iena non fosse stata così forte e zelante da togliere le pietre a una a una. E questo sarebbe forse potuto accadere, ma la buca era profonda e le pietre grandi. No, la donna stava ancora là, ne ero certo, e si sarebbe disseccata sotto le pietre da me disposte, e disposte con tanta cautela, quasi temessi di farle male.

Dopo un’ora eravamo arrivati alla carogna del mulo. Ce ne restava ben poco, ma il puzzo si dissipava sempre nel forte calore; e, più della boscaglia e della valle che si ripresentavano ai miei occhi come quel giorno, fu quel fetore a ridarmi la memoria dell’accaduto.

Andavo avanti, staccato dagli altri, non per dare prova di coraggio, ma soltanto per prevenire il rinvenimento di qual che oggetto dimenticato. Ero certo che nulla avevo dimenticato; ma quella busta? Ecco un esempio di cose che non bisogna mai lasciarsi cadere dalle tasche. Sarebbe stata inspiegabile la presenza di un’altra busta. Ma anche questa è un’idea di quelle che vengono quando fate una scorciatoia e i soldati cantano.

Il sergente venne a suggerirmi di farli tacere. Spiegò che saremmo facilmente caduti in un’imboscata, preannunciando a quel modo il nostro arrivo. “Giusto,” risposi “fateli tacere.” “Benché,” pensai “alla donna non sarebbe dispiaciuto.” E i soldati tacquero a malincuore, perché il soldato protesta cantando e si solleva così di tutte le sue sciagure, e cantando non pensa al ritorno.

Adesso guardavo tra i rami di un albero. “Alt” dissi. C’era qualcosa, un fagotto, non vedevo bene. Proseguii con la rivoltella nella destra, mentre sentivo che i soldati approntavano le armi, confusamente. Cos’era quel fagotto? Un uomo. Ma un uomo in piedi su un albero? Una vedetta? E non si muove? Alla svolta mi accorsi che era un impiccato. Impiccato in camicia, con la fronte rivolta a terra, quasi stesse meditando sulla sua sventura, le mani distese lungo i fianchi, le membra gonfie. Non l’avrei riconosciuto se ai piedi dell’albero non ci fosse stato, a pezzi, quello stridulo violino. Era uno dei giovani, proprio il suonatore.

I soldati si tenevano discosti e non parlavano. Nessuno parlava. C’era un silenzio così sgradevole che un soldato sparò tra i rami dell’albero. I corvi fuggirono, un grosso uccello cadde, agitandosi, perdendo le penne. Altri uccelli simili, benché troppo sazi, tentarono il volo e si acquattarono pigri e felici, tra i rami di un albero vicino. Feci segno di non sparare. Era di troppo il volo di quegli uccelli, meglio non provocarlo.

“È uno dei briganti” spiegò il sergente.

“Un brigante violinista” risposi. Ma non volevo che capisse, non era necessario.

I soldati avevano già scoperto, ai piedi di un albero vicino, un altro corpo e lo stavano osservando, tenendosi alla larga, non potendo però staccare gli occhi dal cadavere immobile e scomposto. Era l’altro adolescente, quello che s’attardava nelle sue danze e volteggiava qua e là, talmente felice di vivere, anche in una boscaglia vicino al fiume, senza cinema e senza bar. Quando ci riavviammo, un soldato cominciò a cantare una canzone troppo allegra, e gli altri lo ascoltavano, ma al ritornello nessuna voce si aggiunse alla prima. Eravamo vicino al torrente secco, bisognava proseguire in fretta.

Ecco, forse dovevo segnare sul mio taccuino anche la morte di quei due giovani. Confusamente sentivo che la colpa era ancora e sempre mia. Prima di chiedere al sergente, pensai che la scomparsa della donna avesse esacerbato gli uomini del villaggio. I briganti che avevano assalito il cantiere erano soltanto uomini indignati da un delitto. Avevano scoperto il cadavere della donna. Ma no, e il vecchio? Il vecchio che va cercando nelle case ospitali la donna e beve il caffè ch’io ho rifiutato e raccoglie i mozziconi delle mie sigarette? No, nessuno ha cercato la donna, eccetto il vecchio. E chi ascolta un vecchio, quando si presenta sulle soglie delle case ospitali a chiedere di una ragazza? Di una ragazza che ha lasciato la boscaglia per una vita migliore, molto migliore?

Quando chiesi al sergente perché avevano impiccato i due giovani, rispose, infatti, che nelle loro capanne era stata rinvenuta parte della refurtiva.

“Forse i briganti, fuggendo, l’hanno abbandonata” dissi.

“Certo” disse un soldato, lo stesso che aveva sparato e che ora seguiva il nostro discorso. “Se l’avevano rubata,” seguitò “la tenevano in casa?” E ci guardò, aspettando una risposta per giudicarci. Il soldato al suo paese faceva il contrabbandiere e ora profittava di quest’occasione per giudicarci. “Che c’entravano loro?” aggiunse.

“Tu dimentichi l’esempio” disse il sergente. Più volte ripeté la frase e intanto mi sbirciava, aspettando un aiuto, la parola definitiva, oppure soltanto per rammentarmi che sarebbe stato quello il mio dovere; e che si vedeva costretto a sostituirmi. Era un curioso uomo il sergente: s’era modellato sul regolamento di disciplina e parlava ora citandone la lettera ora esprimendone in poche parole lo spirito. Si concedeva pochi aggettivi, quelli approvati dalla stampa e dalla Consuetudine militare. Il rancio era “eccellente” e, se passava un aeroplano, quello era “la nostra valorosa caccia”. Incoraggiato dal mio silenzio, concluse: “L’esempio significa che questa gente, un’altra volta, ci penserà prima di rubare”.

“Si vede che lei non ha mai rubato” rispose il contrabbandiere con profondo disprezzo, dirigendomi però uno sguardo di simpatia. E la passeggiata continuò.

Dunque, pensavo, non è la donna il motivo dell’aggressione al cantiere. Non era stato il mio colpo di rivoltella a smuovere la valanga. La donna era una faccenda che riguardava soltanto me. Me e il vecchio. Ma ancora per poco. Il vecchio non avrebbe insistito nelle sue ricerche o sarebbe morto. È possibile vivere a lungo in una simile boscaglia? Io avrei lasciato quella terra, portandone per solo ricordo qualche fotografia. Avrei dimenticato la donna, e il mio orrore, tutto. Oh, il suo fantasma ai piedi del letto era improbabile.

Oltrepassato il torrente, prendemmo il sentiero sul quale lei m’era apparsa quella sera, portando il cestino delle offerte. Ora che tutto mi evocava la sua presenza ero calmo, quasi avessi dovuto rivederla e niente fosse ancora successo. Il sentiero doveva condurre a quel folto d’alberi che lei mi aveva indicato come il suo villaggio.

Avevo rimesso la rivoltella nella fondina, la mano destra s’era indolenzita, sempre per lo sgraffio non ancora guarito. Camminavo adagio e i soldati seguivano cantando. E cantavano la canzone del fonografo, quella della loro partenza e che al ritorno nessuna donna canterebbe. Camminavo adagio perché quelli erano i suoi luoghi e mi sembravano familiari, come lo erano stati a lei. Forse la sabbia del sentiero conservava ancora l’impronta del suo piede.

A trecento metri da noi, un cespuglio si mosse e ne sbucò un uomo, che fuggì. Feci appena in tempo a impedire che il sergente sparasse, ma non potei impedirgli di gridare e l’uomo (ma era poi un uomo o la distanza ci ingannava?) si volse appena e riprese la sua corsa disordinata. Lo vedemmo cadere in un fosso, riapparire poco dopo, cercare scampo tra i cespugli, guardarci, riprendere la corsa.

“Lasciamolo andare” dissi. Ma il sergente mi gettò uno sguardo ironico. Doveva “catturarlo”. Tentai di fargli capire che era abbastanza saggio che quell’uomo scappasse al primo vederci. Aveva constatato com’è facile dondolare da un albero quando si ha la pelle bruna e cercava di mettere la maggiore distanza tra il suo collo e noi, probabili portatori di corda. Fuggiva come una bestia, senza chiedersi se eravamo tratti appunto dalla sua fuga a considerarlo colpevole. Si metteva in salvo, cercava di mettersi in salvo. Sarebbe stato troppo chiedergli che ci aspettasse, sorridente, mostrandoci la sua carta di sottomissione infissa nello spacco della canna da passeggio.

Giravano ancora con la carta di sottomissione. S’erano presentati ai comandi, i primi giorni, a riconoscere i nuovi capi, a giurare fedeltà o soltanto obbedienza. Volevano vivere in pace, e spesso avevano chiesto un segno tangibile della loro buona volontà al primo soldato, perché il primo soldato che s’incontra è sempre il più pericoloso. E i soldati s’erano divertiti a rilasciare carte a modo loro, non meno valide di quelle distribuite dai comandi, anzi più pittoresche. Non era difficile incontrarne con un biglietto scaduto di qualche lotteria, era quello il loro documento più prezioso, il segno che non dovevano essere disturbati. S’erano sottomessi, accettando la volontà dell’Eterno. E altri portavano cartellini, con frasi non sempre, degne di essere riferite, oppure con inviti a prendere a calci il portatore; e andavano così, pieni di una nuova fiducia, per le nuove strade, abbandonando le scorciatoie.

Vedemmo l’uomo fuggire e poi fermarsi, incerto. Guardava verso di noi, si sentiva perduto, e ci vedeva sulla sua pista, meravigliato che non sparassimo, implacabili nell’inseguimento.

“È un bambino” disse il contrabbandiere.

“Un bambino?”

S’era fermato alla base di una nuda collinetta, dove il sentiero si scopriva. Ci avrebbe offerto un bersaglio troppo comodo e s’era fermato. Quando ci vide sopraggiungere (sì, era proprio “quel” bambino), riprese la corsa. Cominciò a salire afferrandosi ai cespugli, senza più seguire il sentiero. La sua paura mosse a pietà i soldati. “Fermiamoci” disse qualcuno.

Avevo pensato la stessa cosa ma non ero stato capace di fermarmi. Ora dovevo raggiungere il bimbo. Gridai al sergente che restasse là con gli uomini e feci cenno al contrabbandiere di seguirmi.

“Non scappare!” grida! al bimbo. Ma non era inutile che gridassi? Non poteva certo capirmi. Il contrabbandiere, che avrebbe potuto superarmi e raggiungere il bimbo, mi seguiva invece indolente, punto persuaso che fosse necessario acchiapparlo. Riviveva forse qualche avventura simile, nella quale a lui era toccata la parte peggiore, quella di fuggire e sentire alle spalle il fiato pesante, le grida degli inseguitori che sono pagati per quel lavoro e lo eseguono.

Il bimbo s’era fermato appoggiandosi a un albero, a qualche metro sopra le nostre teste. Rinunciava. Vedevo il suo corpicino scosso dalla paura, aveva capito ch’era inutile proseguire. Per la fatica che stavo sostenendo nell’arrampicarmi, non potei sorridergli finché non fui a pochi passi. Soltanto allora vidi che portava i miei pantaloni corti, gli stessi che avevo donato alla donna.

Bene, la cosa cominciava a complicarsi. Quei pantaloni erano un messaggio troppo chiaro perché stentassi a decifrarlo. Rividi per un attimo la donna sorridere e guardarmi coi suoi occhi socchiusi e stavolta quasi ad avvisarmi che non era finita come io immaginavo. Il bimbo portava quei pantaloni per unico indumento, gli arrivavano dal petto ai piedi e appena vide che li osservavo se li tolse, restando nudo, e fece il gesto di porgermeli. Me li restituiva, riconosceva ch’era roba non sua, approfittava dell’occasione di quell’incontro con un “signore” per restituirla.

Gli feci capire a cenni che poteva rimetterseli, ma non volle. Tendeva la mano, porgendomeli, deciso a riconoscere il mio diritto, purché lo risparmiassi. Quando capì che non volevo prenderli, li lasciò a terra, delicatamente, e riprese la sua corsa verso il ciglio della collina.

“Andiamo” dissi al contrabbandiere. E seguimmo il bimbo, ch’era adesso sempre più stupito del nostro inseguimento. Non era dunque riuscito a placarci? Il contrabbandiere raccolse i pantaloni e dopo un po’ eravamo sul ciglio dello spiazzo.

In fondo, a duecento passi da noi, c’erano le capanne, tutt’intorno tra gli alberi. Erano poche capanne, miserabili, si vedevano anche i resti di quelle bruciate. Sulle altre sventolavano stracci bianchi, gli stracci della resa.

Il bimbo era nudo in mezzo allo spiazzo e guardava verso di noi. Gridò qualcosa quando ci vide apparire, e un uomo che stava spalando smise di lavorare e si volse, poi riprese a lavorare. Era il vecchio. Doveva essere un lavoro molto importante se la nostra presenza non gli consigliava di interromperlo per salutarci. Lavorava attorno a una fossa e non disse nulla quando noi vi spingemmo dentro lo sguardo. Il vecchio lavorava a ricoprirla, e non diceva nulla. Accesi una sigaretta, perché l’aria era ancora piena del fiato morbido e pesante dei cadaveri, la terra non li aveva ben coperti. Ma il vecchio non aveva fretta e gettava la terra calmo, senza guardarci, cercando che andasse nei vuoti.

Non ci temeva, non stimava opportuno sorriderci, farci il saluto che aveva visto fare tante volte. Gettava la terra ora servendosi della pala, ora delle mani. Sarebbe restato là fino a che il lavoro non fosse compiuto, senza guardarci, e forse aspettandosi che un mio calcio lo mandasse a raggiungere quei corpi che stava ricoprendo, come oggetti che si vogliono sottrarre alla curiosità delle bestie e alle offese del tempo.

Non sapevo andarmene. Il contrabbandiere s’era messo discosto, seduto su un sasso, convinto che bisognava lasciare i morti seppellire i loro morti. Non capiva perché restassi là a offendere con la mia presenza quel vecchio. Mi giudicava certo uno sciocco o forse soltanto un ufficiale. Ritornati in Italia saremmo stati nelle barricate opposte, lui daccapo costretto a procacciarsi il cibo col rischio della vita.

Era un carattere difficile, quel ragazzo, una delle persone che ho più stimato. Bene, erano tutte e due lì, a pochi passi l’uno dall’altro, le persone che ho più stimato, il contrabbandiere e il vecchio, e non si rivolsero mai la parola. Ma i loro pensieri erano identici, lo sentivo, e io ne facevo le spese, poiché rappresentavo la Legge o qualcosa che somigliava alla Legge. “Buon giorno” dissi. Cos’altro potevo dire?

Il vecchio si volse a guardarmi. Il suo viso non esprimeva nessun sentimento, né la sorpresa per quel saluto che valeva una sconfitta, né l’odio che la mia persona doveva ispirargli. S’era seduto sui talloni e le sue magre gambe sbucavano dalla toga che s’era avvolta intorno alla cintola per lavorare.

“Buon giorno, tenente” rispose.

Mi guardava, ma non poteva riconoscermi, c’eravamo visti appena una volta, e io ero protetto dall’ombra che la lampada creava negli angoli di quella stanza. “Un’ombra provvidenziale” pensai. Mi guardava attentamente, forse stupito che gli avessi rivolto la parola. E allora gli chiesi, indicando la fossa: “C’è qualcuno dei tuoi?”.

Questa non era una sconfitta, ma una resa a discrezione. Il vecchio scosse la testa, senza parlare, e seguitò a gettare terra. Non mi guardava più, e certo desiderava che me ne andassi. Ma invece mi ero seduto su una grossa pietra, e fumavo. “Tu parli italiano?” dissi.

Fece cenno di sì con la testa. E allora aggiunsi: “Raccontami”.

Il vecchio si levò in piedi e mi guardò fisso. Per un attimo credetti volesse gettarmi la pietra che aveva tra le mani.

“Tu lo sai, signor tenente “ rispose. Poi gridò qualcosa al bimbo, che cominciò a portargli pietre, una alla volta.

Quel bimbo s’era ormai rassicurato sulla nostra presenza, il mio breve dialogo col vecchio l’aveva addirittura reso audace e ora sgambettava per lo spiazzo, sfoggiando tutta la sua forza nel raccogliere pietre, affinché lo ammirassi. Lasciava la sua pietra vicino al vecchio e correva a un’altra, pieno di zelo, scegliendo le più grandi, scartando le piccole dopo rapida riflessione.

Il contrabbandiere non s’annoiava. Stava arrotolandosi una sigaretta, ma non partecipava ai nostri discorsi, sapeva tutto, quella storia era ormai vecchia. Non amava gli indigeni, ma non amava nemmeno chi li uccideva. Lui, costretto a girare sulle Alpi senza armi (se lo avessero preso con le armi sarebbe stata la fine), aveva imparato a odiare chi si serve delle armi e le punta appena può e spara per sottolineare le sue opinioni. Quegli indigeni erano più vicini a lui che a me, perciò non si sentiva obbligato a nessuna commedia. I morti si guardano seppellire, inutile far domande al becchino. Perché quelle esclamazioni da passante? “Com’è successo? Racconti, buon uomo! Mi dispiace! “

Questo pensava il contrabbandiere, bastava vedere con quanta rabbia stava leccando la sua cartina. Ma io non facevo la commedia sotto l’impulso della curiosità, e lui non poteva saperlo. Chiesi al vecchio perché parlava così bene la mia lingua. Allora trasse dal pantaloni un vecchio portafogli e vi cercò una carta, che mi porse. Era un certificato di pensione rilasciato dal governo italiano. Il vecchio era stato ascari ai suoi bei giorni, e dopo era venuto a vivere in quel luogo. Mi chiedevo come mai potesse viverci su tale miserabile collina, incassata nella valle e senza alberi che non fossero sgradevoli.

Si chiamava Johannes. Mi meravigliai che non fosse intervenuto a evitare la strage, ma sapevo che in quei giorni era sull’altopiano. Chiesi comunque perché non fosse intervenuto, perché non avesse mostrato quel documento che tutti avrebbero rispettato. “Non ero al villaggio” disse indicando il bimbo. Credetti di sentire nelle sue parole il rimorso di essersi allontanato proprio il giorno in cui la sua presenza sarebbe stata opportuna; invece era la soddisfazione di aver salvato il bimbo che gli faceva abbassare la voce. Chi ci capisce niente coi soldati? Se gli avessero strappato quel pezzo di carta sotto il naso?

Gli zaptié l’avrebbero fatto senza pensarci due volte. Erano venuti a cavallo, per quella rapida faccenda, si trovavano di passaggio e si fa presto a incendiare due o tre capanne di paglia. E d’altra parte, gli zaptié ricordavano ciò che gli ascari avevano fatto in Libia, sempre pagati dallo stesso padrone, perché questo è il segreto elementare di un buon imperialismo.

E Johannes mi guardava, ma senza curiosità, forse non guardava nemmeno la mia persona, ma oltre; guardava il ciglio dell’altopiano e la valle che s’apriva al sole di quella afosa giornata. “E questo vecchio” pensai “si ostina a vivere qui, dove le iene verranno, se già non son venute, se già i cadaveri che sono in questa fossa non le hanno attirate.”

“Moretto” disse il contrabbandiere, e il bimbo sgambettò verso di lui, fiducioso. Il contrabbandiere gli porse i pantaloni e glieli fece indossare. In seguito parlò sempre nel suo dialetto e i due si intesero a perfezione. “Piglia! “ e gli dette metà del suo pane, che il bimbo non voleva prendere, ma poi divorò quasi di colpo. Il contrabbandiere mi giudicava male, lo sentivo. Stavo limitandomi a un’accademia di pietà, non avrei mai imparato. Lui con due strilli s’era messo dalla loro parte, tutto era stato detto tra quelle persone, non valeva nemmeno la confusione delle lingue a dividerli, perché si intendevano, come legati da radici comuni a un destino poco chiaro, pieno di cattive incognite. “Tieni” disse al vecchio e il vecchio colse a volo il pane e lo nascose nelle pieghe della toga. Fatto. E io stavo lì a chiedere, e sarei guardato da quel vecchio come il comandante del plotone di esecuzione, che non ha colpa, ma intanto è lui che abbassa la mano, e poi dice: “ Qualcuno deve farlo”.

Johannes riprese a riempire la fossa, voleva finire il suo lavoro prima che il sole fosse troppo alto e l’ombra delle piante dileguasse. Non gli rivolsi più la parola e mi accostai al bimbo, che stava mangiando. Non sapevo tradurre la domanda che mi bruciava. Era forse figlio della donna? Gli girai attorno, fingendo di guardare il paesaggio. Chiesi un fiammifero al contrabbandiere per aver modo di osservare meglio il bimbo. Gli sorrisi, sperando che sorridesse. Quel sorriso l’avrei riconosciuto.

Ecco, ne facevo una questione di particolari, la mia curiosità era veramente degna di uno studioso locale. Figlio, fratello, nipote, che importa? Non bastavano quegli occhi verdi e grigi, quel gesto pieno di pudore nel portare il pane alla bocca?

Dopo qualche minuto partivo dal villaggio, molto più lieto di quando m’ero messo in cammino.

La mia colpa era quasi svanita. L’avrebbero uccisa egualmente, pensavo. E uccisa come! Avevo preceduto di pochi giorni il suo feroce destino, evitandole una fine molto più dolorosa. Non aveva visto uccidere i suoi, né incendiare le capanne, né sentito le grida degli uomini che uccidono per uccidere. Questo andavo ripetendomi mentre scendevo il sentiero della collina. E giunsi persino a compiacermi di averla uccisa.

Ma perché il vecchio adesso mi seguiva? Voleva parlarmi? Mi fermai, ed egli ritrovò il saluto dei suoi vent’anni. “Tenente, “ disse “vuoi il bimbo con te?”. Io e il contrabbandiere lo guardammo meravigliati.

“È bravo,” seguitò Johannes “imparerà a servirti. È inutile che stia qui.”

“Johannes,” risposi “ti ringrazio, ma non posso prendere il bimbo. Tu sai che non sono padrone di fare quello che voglio. Se manderai il bimbo su al campo, gli daremo pane ogni giorno, e anche altra roba, ma non posso prenderlo.” E sorrisi.

“Tu puoi prenderlo” replicò, quasi insolente, ma evitando di guardarmi.

“Non posso” risposi. E poiché ora mi guardava, sostenni il suo sguardo. Mi guardava fisso, come m’aveva guardato il capitano la stessa mattina. Non disse nulla e si allontanò.

Giunti al torrente vedemmo che il bimbo ci seguiva (questo gli aveva ordinato il vecchio, suppongo), e ci seguiva calmo, adesso nascondendosi quando ci fermavamo a guardarlo, ma spiandoci tra i rami degli alberi. I soldati si divertivano. Il giuoco s’era capovolto. Ci seguiva, e sarebbe venuto al campo e me lo sarei trovato davanti alla tenda, con quegli occhi verdi e grigi, e la sentinella l’avrebbe preso a pedate. Stavo per perdere la calma. “Che ne facciamo?” chiesi al contrabbandiere. “Vorrà altro pane” aggiunsi, ma sapevo che non era per il pane che ci seguiva.

“Vedremo” disse il contrabbandiere. Lo andò a prendere e lo accodò alla comitiva. Io non seppi dir nulla, il sergente non osò.

Il contrabbandiere non era spinto dalla vanità, non sapeva che farsene del “moretto”. Era un uomo semplice, aveva cominciato a guadagnarsi la vita da bimbo anche lui, voleva insegnare al ragazzo a guadagnarsi la vita e gliel’insegnò in pochi giorni. Lo mandava nelle cittadine della vecchia colonia a comprare roba e insieme la rivendevano, dividendo il guadagno. Dopo una settimana il bimbo sapeva già tutte le parole necessarie per il suo commercio. Mangiava il suo pane e dormiva tra i sacchi di un magazzino, e nessuno gli diceva nulla, tanto si era agli sgoccioli e, mese più, mese meno, sarebbe venuto il giorno della partenza.

Quando non era in giro per i suoi traffici, il bimbo veniva a sedersi davanti alla mia tenda, come avevo previsto. Ubbidiva agli ordini dì Johannes. Io ero suo “padre”, a me si rivolgeva quando aveva dubbi sull’opportunità di un affare. Si sedeva un poco discosto dall’apertura della tenda, e mi guardava finché non mi fossi degnato di guardarlo. Allora sorrideva e chinava il capo perché fosse ben chiaro che era ai miei ordini e quel commercio col contrabbandiere soltanto un modo di passare il tempo.

“Bene, Elias, come va il guadagno? “

Mi rispondeva la cifra esatta, porgeva le monete sul palmo della mano (proprio come la donna) perché ne disponessi a mio piacere. E restava lì, seduto sui talloni, come il vecchio stava seduto sulla collina a guardia dei suoi morti. Ma non amavo il bimbo e la sua presenza mi infastidiva, soprattutto per quei sorrisi, per quel modo di porgere con la palma aperta, quel modo di fissarmi a lungo, con estrema ammirazione, senza staccare gli occhi. Lo accettavo come un castigo, il più lieve che mi fosse dato di scegliere, ma come un castigo.

“Quante erano le donne al villaggio, Elias?”

Il bimbo pensò a lungo, poi disse che erano tre.

“Erano molto vecchie?”

Il bimbo rimase incerto, poi fece segno che due erano sì molto vecchie, ma una no.

“Ed è morta anche la giovane?”

Il bimbo fece segno di no. Non era morta. Era andata via a tempo, sette giorni prima. “Andata via? E dove, Elias?” Il bimbo alzava il mento per dire che non sapeva. Era andata via, come se ne vanno via le donne, a “sposarsi” con qualche ufficiale o con qualche autista. Era andata sull’altopiano, verso le città meravigliose, dove si dorme in magnifiche capanne e c’è tutto ciò che si può desiderare.

“Era tua sorella?”

Il bimbo scosse più volte la testa per dire di sì. Come avevo indovinato?

“Bene, Elias, basta per oggi, la lezione è terminata.”

Ed Elias se ne andò dal suo impresario a prendere ordini per la giornata. Era felice, gli avevano acconciato una vecchia divisa e lo lavavano spesso. Ma la mattina dopo lo trovavo davanti alla mia tenda, come un residuo dei rimorsi notturni, che il tempo non riusciva a placare, perché più sapevo della donna più il mio delitto mi appariva odioso. Sapevo il suo nome, Mariam, e attraverso i racconti di Elias la vedevo ridere, cantare, la vedevo avviarsi verso il fiume o preparare il pane.

Elias aveva frainteso il mio interesse per la vita del villaggio distrutto, aveva creduto che con quelle continue domande volessi soltanto dimostrargli la mia simpatia. Si credette in dovere di contraccambiarmela nell’unico modo che sentiva, la fedeltà. Una notte mi accorsi che non dormiva più nel magazzino della compagnia ma si accucciava vicino alla mia tenda. Sentivo il suo respiro dolce attraverso la tela, e io non riuscivo a dormire. Pensavo che il giorno dopo l’avrei fatto cacciare dal campo e rinviato al villaggio, ma era possibile? Le cose non s’erano forse messe in modo ch’io non potevo più dirigerle e controllarle? Non era già un miracolo che il vecchio non venisse anche lui a dormire fuori della tenda, e anche i due adolescenti con la corda al collo e addirittura tutto il villaggio? E anche Mariam, giacché ci siamo, perché no? Via, tutti qui intorno alla tenda!

Mi stringevo la testa tra le mani per non urlare, per non uscire dalla tenda e prendere a pedate l’intruso che per sciocca debolezza avevo trascinato sin là. Il suo posto era il villaggio, che c’entravo io con la sua educazione, col suo avvenire? Un giorno o l’altro se ne sarebbe andato, dicevo, appena capirà che può fare da solo lo stesso lavoro che adesso fa col contrabbandiere. Aspettiamo qualche settimana e se ne andrà. Avevo visto sulla strada bimbi di quattro anni chiedere un passaggio alle macchine, offrendo compensi per fare percorsi di cinque, seicento chilometri e vendere pacchetti di sigarette. Avevo visto un ragazzo fare duecento chilometri a piedi per vendere una lattina d’olio e guadagnarci poche lire. Hanno il commercio nel sangue, costoro, e la fedeltà l’intendono come una strada per arrivare alla fiducia, per poi abusarne. “Non preoccuparti,” dicevo “se ne andrà. E allora sarà questo il segno che hai scontato la tua colpa.”

Aprivo la tenda e il bimbo balzava in piedi, sorridente

Una mattina, levandomi, sentii la mano destra indolenzita: tolsi la fasciatura e attorno allo sgraffio, ormai quasi rimarginato, vidi che la pelle s’era gonfiata e fatta ruvida, colorandosi di un pallido viola. Toccai la mano, palpai il gonfiore, e sentii una mano estranea, non più unita al mio braccio. La ripulsione che ne provai fu presto vinta quando, dopo essermi lavato e aver fatto un po’ di moto, sentii insorgere un dolore ottuso e insistente alle dita. Dopo le agitazioni della notte, la luce del sole mi placò e facendo colazione ero del tutto tranquillo. Mi spennellai la mano di tintura di iodio, feci una fasciatura leggera e corsi a ispezionare gli uomini che stavano recandosi alla scorciatoia per i lavori di miglioramento.

Era quella un’idea del maggiore per non tenere gli uomini in ozio, ma la scorciatoia diventava ormai inutile. Il passaggio dei muli si era fatto saltuario, la strada permetteva da tempo il transito dei camion. Ci sarebbe stato poco da fare. Ma i soldati, per ingannare la noia, misero in quel lavoro una cura insolita, volevano farne addirittura una strada, ornavano le svolte di paracarri, mettevano anche frecce e cartelli, bisognava lasciarli fare, nel superfluo trovavano un conforto a quei lavori forzati.

Toccava a me, spesso, sorvegliare i lavori. In verità ne approfittavo per far quattro chiacchiere coi soldati. Oppure mi allontanavo sino al torrente e lì guardavo il villaggio. Gli impiccati erano stati sepolti dal vecchio.

Talvolta, con l’animo di chi sfida la paura, sostavo presso le pozze d’acqua leggendo o facendo finta di leggere. Mi spingevo anche sino al macigno che aveva ospitato me e la donna in quella notte e consideravo ogni pietra, ogni albero, deluso che il teatro della mia colpa fosse così misero. Quattro sassi. Mentre nella memoria ogni cosa aveva assunto proporzioni più vaste ed eterne. Invece, era tutto lì: la nostra alcova, il macigno dove s’era acquattata la bestia, la terra che aveva assorbito il sangue di lei, gli arbusti preparati per essere accesi e, su in alto, il ciglio dell’altopiano, non così distante come m’era parso quel giorno, ora che conoscevo la strada. Frugando con un bastone tra il terriccio, trovai un altro bossolo e lo conservai.

Non sapevo ancora decidermi a rivedere la tomba della donna, ma immaginavo che ogni cosa fosse al suo posto, anche i cespugli che avevo messi per mascherarla. Forse le piogge avrebbero cancellato ogni traccia, portando sul vecchio crepaccio altra terra e altri ciottoli, poiché il crepaccio digradava verso la forra. L’assenza di ogni fetore mi faceva credere (ed infatti così era), che nessuna bestia avesse contaminato quel luogo, e questo era già un motivo di conforto. Un giorno mi spinsi sino al villaggio. Tre giorni prima avevo incontrato Johannes sulla scorciatoia e desideravo rivederlo, portavo con me un tascapane con roba che gli sarebbe stata utile; e mi lusingavo che l’avrebbe presa volentieri. Quando giunsi sullo spiazzo, chiamai ma nessuno rispose. Forse Johannes s’era allontanato per procurarsi un po’ di cibo ed era andato giù all’affluente, oppure in qualche paese dell’altopiano: non sapevo come vivesse. Il villaggio era deserto e nello spiazzo la fossa dei cadaveri era stata coperta di grosse pietre, tra le quali prorompeva già una vegetazione disordinata e ripugnante.

Chiamai ancora e mi avvicinai alle capanne. Riconobbi quella di Johannes, l’unica che tradisse la presenza di una persona viva. C’era una stuoia, un tavolo, qualche coccio, pochi indumenti. Le altre capanne erano nel più completo abbandono e Johannes non aveva nemmeno pensato a impossessarsi degli oggetti che forse avrebbero potuto servirgli. Li aveva lasciati nel disordine dello scompiglio che aveva preceduto le esecuzioni. Non era difficile immaginare cos’era successo. Stuoli di formiche avevano invaso gli stipi delle cibarie e, finite quelle, stavano ora divorando il resto, le poche stoffe, il legno, i rimasugli del massacro.

Erano cinque capanne, ma suppongo che alcune fossero disabitate anche quel giorno, forse, erano di gente fuggita tempo prima sulle montagne. Cercavo, senza volermelo confessare, la capanna di Mariam, forse l’avrei riconosciuta, ma era impossibile, non osavo addentrarmi in quelle stamberghe che respingevano col loro fiato pesante di abbandono. Ero sulla soglia di una capanna, allorché Johannes mi comparve a lato.

“Johannes,” dissi con esagerata allegria “dove eri?”

“Là” e indicò verso il fiume. Poi rimase a fissarmi, senza aggiungere altro. Sentivo che con Johannes non l’avrei mai spuntata, avevo il torto di iniziare sempre io, questo doveva indurlo a pessime deduzioni sulle mie capacità di ufficiale. Sapevo che gli ascari non amano chi concede loro eccessiva confidenza, sospettando che in quella si nasconda l’ingiustizia, che un giorno o l’altro proveranno a loro spese. Sapevo di ascari, prima puniti e successivamente assolti, che avevano preteso di scontare la punizione, quale garanzia che i futuri premi non verrebbero trascurati. Io invece non sapevo trattare quella gente. “Elias fa progressi, “ ripresi “ha guadagnato almeno cento lire questa settimana. “

Il vecchio restava indifferente.

“È un bravo ragazzo, sa farsi voler bene.”

Ancora sbagliavo. Mettevo nelle mie parole una esagerata cordialità, non soltanto perché egli mi ringraziasse, ma, peggio, per fargli vedere quanto gli fossi amico e quanto potesse fare assegnamento su di me. Prese il tascapane senza guardarne il contenuto. “Grazie” disse e andò a posarlo nella sua capanna. Poi tornò e si avviò per accompagnarmi, benché non avessi dimostrato la minima intenzione di andarmene.

“Se vieni al campo, avrai quanto pane desideri” dissi. Ringraziò ancora, ma capii che non sarebbe mai venuto, che giammai l’avrei visto davanti alla mia tenda in atto di salutarmi, di riconoscermi vincitore. Ecco, mi infastidiva il bimbo, e mi infastidiva Johannes, lo sentivo non ostile, ma irraggiungibile, deciso a vegliare i suoi morti, deciso a non perdonarmi; e c’era qualcosa che mi sfuggiva, qualche lampo dei suoi occhi opachi, giallicci, che andavano oltre.

Ripresi a parlare di Elias. Ma sempre più sentivo il disappunto, la stizza per quella visita nemmeno gradita. Non mi ero fatto illusioni sulla loquacità di Johannes, ma avevo sperato da lui almeno un segno di riconoscenza. In fondo, non ero affatto obbligato a sovvenirlo e i motivi che mi spingevano in quel luogo non lo riguardavano affatto; ossia, non poteva conoscerli.

“Dovresti venire a vivere sull’altopiano” dissi. Se fosse venuto sull’altopiano avrebbe facilmente trovato da vivere meglio. Era un vecchio ascari, conosceva la nostra lingua. Non rispose. Mi accompagnò sino al torrente, come un dignitario che fa strada al suo ospite, impaziente di vedermi andar via.

“Addio, Johannes,” dissi tra me lasciandolo “quest’è l’ultima volta. Ti ammiro, ma l’ammirazione mi costa fatica, molta fatica, e io odio le coscienze ambulanti”.

Avevo appena sorpassato il torrente e camminavo in fretta, quando mi sentii chiamare. Non osavo voltarmi. “Andiamo,” dissi tra me “di che hai paura?” Eppure non osavo voltarmi e quando udii nuovamente la voce, guardai appena di sopra la spalla.

Il contrabbandiere si avvicinava. Proveniva dalla forra e si avvicinava con aria d’intesa, voleva parlarmi, e doveva trattarsi di faccenda molto grave, poiché si guardava attorno, per ben assicurarsi che eravamo soli. Cercai di sorridere e ripresi a camminare, volevo allontanarmi, ma il contrabbandiere mi raggiunse e si fermò. Gli dissi, allora, bruscamente, di parlare. Trasse di tasca una zolla di terra e me la porse, senza dir nulla, ma scrutandomi in viso, forse pregustando la mia sorpresa.

“Guardi” disse. La osservai e nel terriccio vidi alcune pagliuzze dorate. Brillavano al sole. Restituii la zolla al contrabbandiere e, ripigliando a camminare (sempre più impaziente di allontanarmi da quel luogo che troppo avevo sfidato), dissi, cercando di dare alla mia voce il tono più calmo che mi fu possibile: “Dove hai trovato questa roba?”.

Il contrabbandiere era incerto se indicarmi il luogo, infine si decise. Nella sua ingenua immaginazione si vedeva già ricco, ma sapeva di formalità da superare prima di essere dichiarati padroni di tali fortune e voleva che lo consigliassi. “Non ne so nulla,” risposi “ma non credo che questa roba sia oro.”

La sua delusione fu di breve durata, credette ch’io scherzassi, o persino che volessi truffarlo. Disse che volentieri mi avrebbe ceduto la metà di quel tesoro se gliene avessi garantito il possesso. “Questa roba” dissi “non ci apparterrebbe. Siamo sotto le armi.” E, preso da un impulso che vinceva l’inquietudine, volli che mi indicasse il luogo dove aveva trovato la zolla.

Era quella la tomba di Mariam, quei miseri cespugli? Vi passammo vicino, ma non fui certo di riconoscerla. Dopo un centinaio di passi, proprio sull’orlo della forra, il contrabbandiere si fermò e raccolse un’altra zolla. “Non è oro,” dissi “non c’è mai stato oro in questo fiume, lo sanno tutti, ed è inutile illudersi. Molti minerali somigliano all’oro, e questo non è oro.” E pensavo: Il vento ha tolto i cespugli, bisognerà rimetterne altri”.

Il contrabbandiere non sembrava convinto, insistei. Avevo fretta di andarmene. Quanto a capirne davvero qualcosa mi era indifferente. Volevo che il contrabbandiere si mettesse l’animo in pace, cercai di persuaderlo. Senza ascoltarmi, cominciò a riempire di terra il suo tascapane; e la sera stessa, tornando su al campo, vidi tutta la compagnia penare sotto carichi insoliti. Non aveva saputo tacere.

Così, un’altra preoccupazione si stava aggiungendo alle solite. Avrei dovuto sorvegliare i soldati che non andassero a sconvolgere tutta la boscaglia e non trovassero, invece dell’oro, quel che vi avevo nascosto. Poi ridevo del mio timore. “Lascia che la trovino, nessuno potrà accusarti.”

M’ero così rassicurato, quando il capitano mi mandò a chiamare per chiedermi se sapevo nulla di quella faccenda dell’oro. “Non credo che sia oro” risposi.

“Eppure, bisognerebbe accertarsi. Domani verrò con lei.” E la sera, a mensa, gli ufficiali mi scrutavano con altri occhi. Quando si parlò dell’oro il mio silenzio fece aumentare la curiosità. “Io sostengo,” disse il dottore “che la proprietà spetta in parte anche al battaglione” e questo fu il segnale di una disputa assai vivace. Ognuno sosteneva la sua tesi. L’oro era dello Stato. Era, invece, del soldato che l’aveva trovato. Era di tutti. Era di una compagnia di sfruttamento che avremmo fondata quotandoci un tanto a testa. “Tu che ne pensi?” e mi guardarono.

Risposi che bisognava prima accertarsi per non cadere nel ridicolo. “Si esamini un po’di materiale e poi si vedrà. Ma è inutile, assolutamente inutile scavare.” Mi tremava la voce, dicendo queste parole? Forse perciò la mia risposta fu ritenuta molto abile. Nemmeno un istante si pensò ch’io avessi avanzato quel dubbio per calmare le mie apprensioni e la loro immaginazione. Dopo la storia del dente, ero salito nella stima dei colleghi, mi si facevano doti di astuzia e di tatto che non ho mai possedute, e spesso il discorso cadeva sulla mia lunga assenza, provocando sempre nuove risa. Ero diventato proverbiale. Se qualcuno si allontanava tutti osservavano che aveva mal di denti; e non si parlava di andare in cerca di ragazze, ma di un dentista. E ora, avevo un segreto disegno, tentavo di distrarre l’attenzione altrui da quel tesoro, che invece era di tutti.

Così, la sera stessa al giuoco delle carte si sostituirono tentativi di lavaggio della terra raccolta. Sentivo dalla mia tenda l’affannarsi dei soldati, era quella una buona occasione per bandire la malinconia, e invece a me l’accresceva.

In quei giorni il dolore alla mano era quasi scomparso, ma rimaneva sempre quel cerchio violetto e un’ottusità del tatto che m’impensierivano. Seguitavo a curarla da me, tutto si sarebbe risolto presto. Ero anche dimagrito per le persistenti insonnie, spesso perdevo sangue dal naso, e questo bisognava attribuirlo al sole che picchiava sulla scorciatoia. Così quella sera, la mia richiesta di licenza di un mese, per tornare in Italia, fu accolta da grandi risa. Volevo precedere tutti nelle pratiche dello sfruttamento? Il capitano però non rise; stimava certo inutile una risposta o di farmi soltanto capire che stavo esagerando. Perché non avevo chiesto addirittura il congedo?

Ero avvilito. Volentieri sarei rimasto nella tenda, la mattina dopo, ma il pensiero della tomba che avrebbe potuto essere sconvolta mi spinse a raggiungere la scorciatoia e la forra con quel nugolo di ufficiali troppo allegri.

“Di qui” dicevano i soldati, scavando. Io mi tenevo discosto, aspettavo, senza partecipare al chiasso. “Questa è la prova peggiore,” pensavo “devi superarla.” M’ero seduto accanto alla tomba della donna, deciso a non alzarmi se fosse venuto qualcuno a scavare in quel punto. E guardavo, inebetito da tanta allegria, quando vidi altri ufficiali raggiungere la forra, e a costoro il capitano accennò verso di me, ridendo. Non fui capace di alzarmi. Vennero gli ufficiali, e seguirono le presentazioni. Erano del cantiere e si congratulavano scherzosamente della mia fortuna. Uno di essi aveva sul bavero della giubba mostrine color granato. Forse mostrine del corpo sanitario. Ma era inutile chiederlo.

Non se ne andavano, anzi sedettero vicino a me, e l’ufficiale con le mostrine color granato (poteva essere un ufficiale del genio, o dei bersaglieri: ma nel primo caso le mostrine avrebbero avuto il fondo nero, e nel secondo sarebbero state a fiamma) sedette sulla tomba. Non potei impedirglielo. I soldati seguitavano a scavare, sempre più allegri, il capitano voleva rendersi conto dell’estensione del giacimento.

“Queste mostrine” chiesi “sono del corpo sanitario?”

Rispose di sì. Non chiesi altro, non chiesi da quanto tempo stava al cantiere e se era venuto da poco, dopo l’aggressione, per curare i feriti. Ma doveva essere venuto da poco: la sua giubba era nuova. E sul casco portava gli occhiali da sole. Benché i feriti non dovessero certo tenerli al cantiere, a meno che non si trattasse di feriti leggeri. Forse era un ufficiale di passaggio, s’era fermato al cantiere prima di proseguire verso le montagne dirimpetto, certamente incapace di lasciare il fiume per addentrarsi nella triste regione senza strade e senza autocarri.

“Lei è appena laureato, immagino” dissi. Aveva un volto giovanile, i soldati avrebbero ben presto profittato della sua arrendevolezza, accusando ogni sorta di malanni. Rispose che era docente universitario. E chirurgo.

Non se ne andarono, anzi accesero le sigarette e parlarono del ritorno. Ne parlava anche l’ufficiale con la giubba nuova e mi chiedevo come poteva permettersi di parlare del ritorno un ufficiale con una giubba talmente nuova. E mi chiedevo anche perché non avvertissero nulla, quel lieve, quasi impercettibile ma penetrante odore. Lo sentivo io, forse perché ero stanco, digiuno, nauseato? O era soltanto quella vicinanza? No, era un fiato quasi impercettibile, ma rammentava qualcosa di preciso. Forse l’odore della casa delle due ragazze portato alle sue estreme conseguenze, alla corruzione, e vi si mescolava il ricordo delle carogne assolate. Ma ero il solo a sentirlo, e me ne compiacqui segretamente.

I soldati seguivano il filone che fortunatamente scendeva nella forra, per poi risalire verso l’altopiano. E non venne nessuno con la pala a dirmi: “Permette, signor tenente?”.

La sera, tornando al campo, caddi a terra. Non seppi rialzarmi, la testa mi girava, sentivo la nausea legarmi la gola. “Andate avanti, “ dissi “io mi riposo.”

Sentii le ultime voci dei soldati che si allontanavano e fissai lo sguardo oltre la valle, sul disco del sole che annegava nel suo tramonto fumoso, risvegliando i primi gridi della boscaglia. Ero affranto. In tutto quell’incalzare di incidenti, nel bimbo che dormiva fuori della tenda, in Johannes che mi metteva alla porta, e ora in quella ridicola faccenda dell’oro, e in quell’ufficiale con la giubba nuova che arrivava a cose fatte, sorridendo, intuivo la trama di un disegno perfido. Ma che cosa si voleva da me? Che mi mettessi a urlare, come gli assassini pentiti: “È qui! Scavate!”. Sapevo che non avrei mai ceduto a questa tentazione, che non avrei ceduto nemmeno alla tentazione di raccontare la cosa a un amico, per chiedergli, col segreto, una implicita assoluzione. “Dopotutto,” dicevo “non sono pentito. Non potevo fare altrimenti.”

Il sole declinava, bisognò tornare all’accampamento. La breve sosta mi aveva placato, anzi tolto ogni timore. Giunsi a considerare serenamente la mia colpa e non le trovai un castigo. Anche se avessero scoperto il cadavere, anche se i sospetti fossero caduti su di me, finché io non avessi ammesso, gridato il mio delitto, non sarebbe successo nulla. Seppellito il cadavere, avevo fatto il mio dovere verso gli altri, e ora potevo seguitare a farlo, tacendo. Non contava la donna, ma soltanto la mia colpa verso gli altri. Anch’essa era sfumata, dal momento che non la palesavo. “Consolati,” dissi “hai molti complici, non potresti nemmeno contarli. E chiedono soltanto che tu taccia. Non li avevi quella notte, ma ora sì. Seppellita la donna, il delitto non è nemmeno più tuo, subentrano altre competenze. Molti complici e nessun processo: siamo in territorio nemico e c’è stato di peggio. La tua colpa diverrà tale solo il giorno che costringerai il comando a emettere una nuova circolare.”

Sordamente racconsolato da queste parole che mi andavo rivolgendo, ripresi la strada. Toccandomi la fronte sentii che scottava, era soltanto la febbre, dunque, che mi faceva agitare. Niente paura, me ne sarei andato, e Lei mi avrebbe fatto dimenticare ogni cosa, anche la mia deplorevole debolezza. Lei, il complice più caro e che non avrebbe mai sospettato nulla.

Ma dovevo tornare al campo, seguitare quella sciocca commedia, perché tutti sapevano ormai che non si trattava di oro, eppure seguitavano a parlarne, non abbandonando l’ultima speranza. “Eccolo qui” disse il maggiore. Mi aspettavano tutti, anche il generale, ch’era venuto attratto dalla voce che circolava già nei reparti.

“È lui lo scopritore.”

Fu inutile schermirsi. Il generale stava prendendo sul serio la faccenda, e forse voleva partecipare al trionfo della scoperta. Ci consigliò di fare un esposto al governo della colonia, lo avrebbe inoltrato la sera stessa. Stavo scrivendolo, quando un gridare confuso mi richiamò e vidi alcuni soldati che si affannavano a spegnere un incendio scoppiato in una tenda. Il generale era rimasto ustionato assistendo al tentativo di fondere una certa quantità di quelle pagliuzze. Fu un tale diversivo che, tre giorni dopo, quando si seppe che l’oro era soltanto mica, ci si consolò subito rammentando lo spavento del generale allo scoppio del fornello a benzina. E nei racconti, a chi fu attribuita la paternità dello scherzo? A me. Io avevo taciuto, appunto perché tutti cadessero nel tranello, io avevo scritto l’esposto, io avevo consigliato il generale di far fondere le pagliuzze.

“Ciò che più mi ha divertito in questa storia,” diceva spesso il capitano “è la serietà con la quale lei ascoltava il generale.”

La mia fama di burlone fu così assicurata a tal punto che non potei rifiutarla. Anche il maggiore, che aveva qualche motivo di astio col generale, trovò che il mio scherzo era stato di ottimo gusto. L’aver poi messo in allarme il governo della colonia, compensava tutti di ogni delusione. Le tende furono vuotate della terra raccolta, i tascapane si liberarono. Qualche zolla fu conservata e servì da candeliere.

“Vi immaginavo diverso” disse un giorno il maggiore sorridendo: e voleva essere un elogio. Parlammo a lungo, per la prima volta in due anni. Seppi poi che si stava davvero interessando per farmi ottenere la licenza.